Quando sei distante dal luogo in cui le radici rimangono salde e ben aggrappate, ogni altro posto diventa un surrogato di casa: ogni altro posto lo vivi come se fosse un punto di passaggio, una congiuntura poco rilevante nella tua vita che – credi – avrà il peso leggero di quel che in quel momento rappresenta.
Poi succede che vai via. Ancora.
Ti sposti ancora verso altri solchi da seminare, per provare ad attecchire ancora e rendere più rigoglioso quel presente che ti fa più paura del futuro: ché il passato, invece, è la tua vera forza.
Ma non può bastare.
Ancora di più quando la tua vita ha, inevitabilmente, un’estensione ancora più ampia nel futuro: quel futuro che provi a rendere migliore, ma che ha già un suo passato e un presente che sono diversi dai tuoi: nella percezione delle cose, nell’attaccamento ai luoghi, nella possibilità di sentire le cose secondo punti di vista che non sono i tuoi e non possono e non devono esserlo.
E allora? Qual è il giusto peso? Qual è la giusta misura? Forse l’empatia che ti ribalta addosso l’angoscia di un ennesimo sradicamento? Forse la convinzione che esiste una sola casa e che tutto il resto è soltanto di “passaggio”? E qual è quella casa? Quella che per me è casa non può esserlo per lei che non l’ha vissuta. La sua casa è diversa dalla mia, i suoi pensieri sono diversi dai miei, la sua visione delle cose è diversa dalla mia, il suo attaccamento alla vita è diverso dal mio. Solo una cosa, in questo momento, sento coincidere fortemente: l’ angoscia che colgo in ogni suo gesto, in ogni suo pensiero, in ogni sua parola, in ogni suo silenzio. L’angoscia che mi pervade al solo pensiero di un suo rimprovero: quello di essere io l’artefice delle sue radici recise.
E.G.
[Illustrazione: Ottokim]