È proprio come la descrive lui la sua Genova, quella dei carruggi, delle graziose e dei disperati che lui tanto amava e che cantava nelle sue canzoni. E non si può capire fino in fondo se, anche solo per un pomeriggio – caduto non per caso proprio il giorno prima del suo compleanno –, non se ne respira l’aria, non se ne vedono i colori, le atmosfere, ma soprattutto le contraddizioni che questa città rende visibili e percepibili in maniera violenta, passando in un attimo dal sacro al profano negli angoli dei vicoli, dove sulle teste delle graziose di oggi si vedono altarini votivi se solo si alzano gli occhi, e dalla luce meravigliosa del porto, con la sua apertura verso il mare, verso il viaggio e la speranza, al buio pesto dei carruggi che diventano in un attimo gallerie di tristezza e disperazione.
È questa la Genova che ha forgiato il pensiero di Faber e oggi, pur non essendo uguale a trent’anni fa, la percezione che quei gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo la puoi toccare con mano se solo ti soffermi a guardare e ad ascoltare, trovandoti per caso in una di quelle vie proibite dove nulla ti accade ma delle quali devi avere paura.
L’ho subito cercata Via del Campo, quella via che tante volte avevo immaginato ma di cui non avevo mai capito davvero l’essenza: e mi ha subito dato la chiave di lettura che mi ha aperto alla mera curiosità di camminarla quella Città Vecchia nonostante Giulia, il mio Ipad che mi faceva da mappa, la macchina fotografica al collo e il pregiudizio che, a volte, è più grande della paura.
Fabrizio si respira in ogni angolo, in ogni intrico di vie dove il buon Dio non dà i suoi raggi, ché devi alzare lo sguardo al cielo per capire che, invece, il sole ci prova a dare luce anche a quella “umanità di scarto” tanto vicina alla sua sensibilità e alla quale, con le sue poesie, ha provato a dare voce per tentare di contrastare certi inutili e vani pregiudizi.
Passeggiare per quelle vie ti dà la misura di quanto, ancora, le sue canzoni siano spunto di riflessione sempre più attuale: nulla infatti è cambiato, da quello che lui vedeva a quello che oggi è possibile scorgere, se non nella differente modalità in cui certe dinamiche balzano agli occhi e all’anima: dalla lingua, ai profumi, ai colori che cambiano e che sembrano ancora di più non appartenerci perché distanti geograficamente, da una parte, a quel modo di ostentare un certo perbenismo, certe regole morali, quel conformismo dietro il quale si nasconde la peggiore ipocrisia, dall’altra.
I ladri e gli assassini della Città Vecchia hanno, ormai, il colore e l’odore della disperazione di chi, attraverso il mare, cerca nuove speranze approdando, invece, in luoghi di miseria e rinnovate umiliazioni.
Tanti di loro hanno sorrisi da regalare accogliendoti, già al parcheggio del Porto Antico, con regali colorati e portafortuna tra gli insulti beceri e indomabili di chi non vuole scocciature; altri, invece, stanno lì, lungo il molo, a distribuire simboli di ricchezza e ostentazione, a poco prezzo però – ché oggi ciò che conta è ostentarlo il denaro, pur senza averlo – quasi ad avvalorare, agli occhi di tanti incontentabili capricciosi, il loro essere vittime di questo mondo.
E le bambine hanno ancora gli occhi grandi color di foglia ma sono lì non più ad insegnare l’amore, ma a farselo rubare quel briciolo di amore che scorgi nei loro occhi, regalando il paradiso in un angolo di inferno.
Basta poi infilarsi in un nuovo vicolo, di quelli che ti perdi ma che tutti portano al mare, e tutto sembra svanire nel nulla: gli odori, i suoni, le sensazioni: tutto si ribalta e Genova cambia volto, cambia essenza… e ti riporta al mare.
È durato poco il mio errare nella Città Vecchia ma è bastato per sognare, per perdermi nelle parole che risuonano vive tra quelle vie, rimbalzando di porta in porta, di volto in volto, di pietra in pietra… e per ricordarmi di tornare ancora, per riprovare l’emozione di riperdermi tra quei carruggi, tra quella gente, ancora una volta, insieme a Fabrizio.
Emanuela Gioia