La Ginzburg in due parole? Non era mondana, non era pettegola, aveva qualcosa di adulto e di severo che la differenziava dagli altri scrittori italiani. Montale, il più ascoltato dei suoi critici geniali (…), ha scritto d’un racconto di Natalia che è «cosi grigio da resultare poi vivamente luminoso, una volta che gli occhi si sono abituati all’uniformità di colore». Per capire com’era effettivamente la Ginzburg, facendo chiarezza sulle sue radici letterarie, bisogna tuffarsi nel bellissimo ritratto che ci ha lasciato di Cesare Pavese cioè del suo vero e forse unico maestro. Bastino dunque queste poche righe, queste parole che vanno lette come si legge un credo o una confessione: «Diventavamo, in sua compagnia (in compagnia di Pavese, ndr), molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze» (…)
Una cosa posso affermare da passante, da vicino di casa della Ginzburg. La sobrietà era la sua inconfondibile divisa esistenziale. Non aveva, questa sobrietà, nulla di malinconico o di dimesso, ma anzi vestiva una tutt’altro che rassegnata fierezza femminile. (…)
Una semplicità esigentissima che non concedeva deroghe, eccezioni. Penso che il superfluo, immagino che i pensieri che non quadravano la facessero fisicamente soffrire. Per prima cosa, incontrando Natalia, colpiva (almeno cosi è successo a me) la sua voce chiara, forse volutamente decelerata di chi vuol capire e farsi capire. Va aggiunto che Natalia fumava, avendo con le sigarette un rapporto un po’ mascolino quasi che in altri tempi il ricorso al tabacco fosse stato per lei anche un’astuzia suggerita dalla timidezza. Portava i capelli corti, vestiva in modo da apparire sempre in ordine e «a posto». Il suo rifiuto delle più atteggiate vanità donnesche, cosa che dalle fotografie non si può arguire, era viceversa determinante. Natalia si abbigliava un po’ come un’operaia della vita costantemente impegnata alla catena di montaggio delle sue responsabilità di scrittrice, di madre di famiglia, di persona che non subisce passivamente quello che la vita le mette davanti. Anzi discute sempre e testardamente il da farsi. (…)
La Ginzburg apparteneva con evidente consapevolezza a quella leva che, poco dopo aver compiuto la maggiore età alla fine degli anni Trenta, si era trovata a sfidare pericoli mortali, a patire infami persecuzioni, a soffrire lutti incolmabili. Una leva che più tardi, quando finalmente si fosse tornati a vivere perché liberati dal nazifascismo, avrebbe dovuto liberamente scegliere tra il perdono e la rabbia. In questo senso Natalia scelse una terza via cioè il giudicare attraverso la letteratura, ubbidendo a un’idea o forse sarebbe più corretto dire a un sentimento di sé, che l’accompagnava fin dall’adolescenza. (…)
ANTONIO DEBENEDETTI
«Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. (…) per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani e degli assiro-babilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra.»
«Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia. E la vendemmia fu generale, perché tutti ebbero l’idea di prendervi parte; e si determinò una confusione di linguaggio fra poesia e politica, le quali erano apparse mescolate insieme. Ma poi avvenne che la realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l’illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera. Cosí molti si ritrassero presto sconfortati e scorati; e ripiombarono in un amaro digiuno e in un profondo silenzio. Cosí il dopoguerra fu triste, pieno di sconforto dopo le allegre vendemmie dei primi tempi. Molti si appartarono e si isolarono di nuovo o nel mondo dei loro sogni, o in un lavoro qualsiasi che fruttasse da vivere, un lavoro assunto a caso e in fretta, e che sembrava piccolo e grigio dopo tanto clamore; e comunque tutti scordarono quella breve, illusoria compartecipazione alla vita del prossimo.
Titolo : Lessico Famigliare
Autore: Natalia Ginzburg
Casa editrice: Einaudi
Premio Strega 1963