Sciascia, Bufalino e Consolo: tre sfumature di una stessa sicilitudine.

Sciascia Bufalino Consolo
Leonardo Sciascia – Gesualdo Bufalino – Vincenzo Consolo
Autore Giuseppe Leone

Esiste un legame profondo tra i luoghi e le persone che è innegabile, quanto misterioso e affascinante. Tanto più quando il luogo in questione è un’isola come la Sicilia, una terra che accoglie una molteplicità ricca e diversificata di suggestioni che non è solo geografica, ma soprattutto di visione, di pensiero, di modi di essere, influenzati dalle tante culture che sono passate da lì non senza lasciare un segno. E anche un senso: se non altro nella varietà di modi in cui si può essere siciliani e nella varietà di modi in cui questa terra può essere narrata.

Riuscire ad addentrarsi in quella pluralità di sensi, e di rotte, non è facile. E se questo vale per chi di quella terra non è figlio, la difficoltà abita anche nel cuore dei siciliani stessi. Che siano nati e rimasti in Sicilia o che rappresentino gli ulissidi descritti da Consolo – quelli nati in Sicilia e andati poi altrove, ma che nella Sicilia continuano a cercare sé stessi -, per tutti è un po’ come perdersi in un labirinto, in un cammino in cui il punto di partenza è anche la destinazione a cui si vuole giungere, ma non senza prima averne esplorato fin nel profondo gli spazi e i tempi che hanno a che fare con la memoria, nel nome di un nostos che diventa catarsi, a volte, o malinconico cammino dell’eterno ritorno, altre.

L’identità dello scrittore siciliano

Questa condizione vale ancor più, forse, per chi la Sicilia decide di raccontarla.

Essere scrittori siciliani è senz’altro un requisito che ha un peso maggiore rispetto all’essere scrittori di qualunque altro luogo o regione. Di sicuro sottende un legame più profondo, che va ad intrecciarsi fortemente con le radici e che difficilmente concede di raccontare senza rendere conto alle molte contraddizioni che evidenziano l’indefinibilità della sicilitudine, o isolitudine, come l’aveva definita Gesualdo Bufalino.

Una connessione che può rappresentare un vincolo potente, quasi una prigione concettuale, un fardello che impedisce, di fatto, di risolvere e di risolversi: ancor più nella scrittura, prima fonte di smanie e agitazioni, e di inquietudini che, inevitabilmente, sopraggiungono nel racconto.

Gli scrittori siciliani conservano, come ci ricorda Bufalino, “una loro inafferrabilità perché il loro pensiero può passare da un estremo all’altro, attraverso una serie di antinomie”.

Una sorta di incomprensibile unicità che, pur nelle differenze, li accomuna.

Differenze che il più delle volte si configurano in un perimetro ristretto, che interessa l’identità geografica dei luoghi ma anche la geografia umana e letteraria di quegli stessi luoghi che, inevitabilmente, influenzano le diverse modalità di essere scrittori siciliani.

Un attaccamento alla memoria, al passato, alla tradizione, che se da una parte diventa sacrificio, dall’altra non può che essere fonte unica del racconto e di tutti quegli elementi connessi al racconto stesso. E così, la lingua, la scrittura, le storie narrate, il tipo di impegno che con la scrittura si decide di portare avanti, diventano il risultato di quel legame, di quella dicotomia, di quell’attaccamento che è radicato e profondo e scava negli strati della terra e dell’anima per cercare risposte.

Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino

Le antinomie di cui parla Gesualdo Bufalino, che altro non sono se non lo specchio delle discordanze della Sicilia stessa, sono molto evidenti se si guarda ai suoi scritti e quelli di Leonardo Sciascia.

Entrambi siciliani dell’interno, uno di Comiso, l’altro di Racalmuto, il loro essere scrittori siciliani si differenzia su molti aspetti, prendendo direzioni che, pur convogliando la stessa inquietudine, si muovono su tracciati diversi.

Nella letteratura, così come nella personalità di Sciascia e Bufalino, emerge una contrapposizione affascinante tra due prospettive siciliane, ciascuna caratterizzata da un originale modo di esprimere la propria visione del mondo, dovuta anche, o soprattutto, al fatto che incarnano l’uno la Sicilia orientale e l’altro quella occidentale, con tutto l’universo di differenze che questo comporta.

Gesualdo Bufalino interpreta l’essenza dell’anima barocca, lunare e sotterranea della Sicilia orientale, che lo porta a trattare maggiormente temi strettamente esistenziali; al contrario Leonardo Sciascia mostra la concretezza della Sicilia occidentale, quella che cerca la luce del sole, che spinge sulla denuncia civile per riscattarsi, che cerca il coraggio anche attraverso uno stile asciutto che stia al servizio delle storie, ma che, non per questo, risulta meno ricercato.

Bufalino aveva trovato il modo di sintetizzare questa diversità utilizzando, scherzosamente, due immagini molto eloquenti capaci di definirne i contorni, seppur sempre molto labili e non troppo risolti: definiva Sciascia uno scrittore secco e diceva di sé di essere uno scrittore umido, affermando di ammirare gli scrittori secchi e di amare gli scrittori umidi.

Una differenza che è sottesa alle loro stesse opere, al modo di scrivere, a ciò che la scrittura per entrambi rappresenta nel mondo, alle ragioni che, di fatto, spingono entrambi alla narrazione.

Sciascia trova le sue ragioni all’interno della propria coscienza e all’interno della società in cui vive. Con il suo continuo e incessante indagare nella illegalità e nella corruzione della storia, le sue opere scrivono in qualche modo una nuova storia, divenendo un universo unico alla ricerca della giustizia, della verità e dei grandi valori morali, facendosi, così, testimone secco del mondo, della collettività e delle cose che a questa collettività appartengono, della loro verità e della loro memoria.

Bufalino, invece, in contrasto con l’amico Sciascia, è più un testimone di sé stesso, del suo dolore, della sua solitudine, e predilige il culto della memoria e le meraviglie della parola.

Per lui la scrittura diventa espressione della bellezza della lingua, da svelare attraverso l’uso traboccante di aggettivi convinto che “le cose rischino di essere ossificate se ridotte ai soli sostantivi, mentre invece l’aggettivo riesce a restituire colori al neutro, al grigio del mondo”

Allo stesso tempo, quella stessa bellezza, che sembra avere un valore puramente estetico, diventa la manifestazione più palese di un senso di inquietudine che caratterizza tutti i personaggi dei suoi romanzi i quali rivelano sempre, anche attraverso quell’uso particolare delle parole, un senso di spiritualità profonda. Per Bufalino l’uso di un registro alto della lingua diventa il modo più immediato per evidenziare la contraddizione insita nell’uomo e nelle cose del mondo: un modo per restituite il senso dei sentimenti e proteggerli da un mondo che si presenta offeso e indecifrabile e per eludere quell’inganno in cui ci si sente intrappolati.

“Si scrive per surrogare la vita, per viverne un’altra”, ma soprattutto si scrive per dare un nuovo significato alla sconfitta della morte: perché la letteratura diventa l’espressione più immediata di quello scrigno di protezione che è la memoria, una sorta di alcova in cui ripararsi immergendo corpo e anima nelle radici della propria terra, “patrimonio di memorie, vera mnemoteca e insieme materno cordone ombelicale con l’esistenza”.

La Sicilia, dunque, che diventa il centro dello scrivere, ma anche del pensare, del vivere, dell’amare, del morire. La fonte di ispirazione massima per entrambi che, se per Sciascia ha un’evidenza più immediata, procedendo lui su quel filone della grande tradizione che si lega fortemente a Pirandello, non solo per una questione geografica, ma anche e soprattutto per una questione di natura e cultura interiore,  per Bufalino che, come dirà lui stesso, arriva alla scrittura attraverso i libri e non attraverso il rapporto viscerale con la terra in cui è nato, diventa meno riconoscibile, ma non per questo meno incisiva.

Una scrittura che per entrambi diventa bisogno di colmare un vuoto, la conseguenza naturale di un’inclinazione intima che si impone in maniera spontanea, di quella propensione alla malinconia e alla drammatizzazione che diventa metafora di un luogo e che, pur partendo da presupposti diversi, diventa fonte inesauribile per la rappresentazione di un legame identitario profondo e condiviso.

“È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. In questo senso, quel critico che dalle Parrocchie cavò il giudizio che io fossi uno di quegli autori che scrivono un solo libro e poi tacciono (e se non tacciono peggio per loro) aveva ragione (ma aveva torto, e sbagliava di grosso, nel non vedere che c’era nel libro un certo retroterra culturale che, anche in mancanza d’altro, sarebbe bastato a farmi scrivere altri libri). Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati.”
– Leonardo Sciascia

“Con la Sicilia i miei rapporti sono di qualità schizofrenica. E tuttavia, più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la pelle indigena e di promuovermi “totus europeus”, più tendo a raccogliermi e ricucirmi dentro la mia terra e la mia civiltà. Mi ricordo che un giorno, a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo ad ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità.”
– Gesualdo Bufalino

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo riflette nella sua opera letteraria tutto il suo essere siciliano, il peso della sua sicilianità, di una appartenenza culturale che diventa la ragione prima della sua scrittura, inserendosi in un filone letterario che diventa una sorta di confluenza, di incontro tra Sciascia e Bufalino. Una confluenza che oltre ad essere di concetto, è prima di tutto geografica, quasi come se Sant’Agata di Militello, il suo paese di origine, nel messinese, trovandosi fisicamente esattamente al centro divenisse una sorta di ponte tra quei due mondi apparentemente separati ma, in realtà, cosi vicini e somiglianti in vari modi.

Un ponte tra due mondi e tra due modi diversi di essere scrittori siciliani che condividono la convinzione che la scrittura e la memoria costituiscano il fulcro essenziale per narrare.

La scelta dei temi e la scelta linguistica fanno di Consolo uno scrittore impegnato con la storia e con le vicende della società, ma allo stesso tempo molto attento alla forma.

Nelle sue opere possiamo trovare sia la denuncia, sulla linea che prosegue il lavoro legato all’impegno civile che fa Sciascia, ma è presente anche un lavoro lessicale molto ricercato, un’attenzione per la lingua e per le parole che, rispetto a Bufalino, si spinge persino oltre, con una ricerca spasmodica di termini che possano stupire e insieme raccontare la disperazione della Sicilia.

Anche per Consolo, come per Bufalino, la scelta linguistica non ha un valore puramente estetico, ma il suo lavoro lessicale assume un significato politico di resistenza e di opposizione, una sorta di scavo filologico che diventa un modo per opporsi alla lingua tecnologica, mediatica, aziendale, capace di esprimere solo il vuoto della modernità, ma soprattutto un modo per provare e ritrovare l’ordine in mezzo al caos che la modernità stava alimentando.

E l’ordine, per Consolo, è il ritorno alla memoria. Nella sua idea di scrittura la memoria diventa un viaggio a ritroso, un immergersi nel passato per reinventarlo e, grazie alla potenza del ricordo, ricostruire il tempo, cambiandone la direzione.

Per lui, dunque, il ruolo della letteratura è lotta contro il potere, ma anche contro la perdita della memoria e diventa un modo per esaudire il desiderio di andare oltre la storia, di superarla, liberando la malinconia di chi non può più fare niente, perché tutto è già accaduto, dalla prigione del tempo che è già passato; e il compito scrittore è quello di recuperare la coscienza del passato e del presente, di rinvenire la memoria per uscire dalla condizione di alienazione che rischia di diventare un presente assoluto, privo di passato e senza prospettive per il futuro.

Con l’uso di metafore intrise di memoria e di ricordi, il narrare diventa, per Consolo, un mare di purificazione, di catarsi, un modo per affondare dolcemente nella memoria linguistica e storica della sua cultura, per poi risalire con l’illusione di aver recuperato soluzioni altre. Ma è proprio nell’evolversi del racconto, dei suoi viaggi nella memoria, dei suoi nostos, che emerge la consapevolezza del nulla, del buio di un’epoca in cui la memoria diventa materia da cancellare, e Consolo si rivede sempre più, come un ulisside moderno, prigioniero della malinconia, della memoria di ciò che è stato e che non può più essere, condannato all’erranza eterna, ad espiare le colpe della modernità.

Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricercarne un altro sulla carta. Grande peccato, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni. […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è,  può fare dei salti mortali, volare e  cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora.

[…] lo stile, la scrittura sono inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.

Nella modernità, le colpe non sono soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […]. Nessun viaggio penitenziale e liberatorio è ormai possibile…questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare.

– Vincenzo Consolo

Emanuela Gioia

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