C’è un meridiano che si aggiunge alla maglia terrestre e si intreccia, in un ordito fitto e compatto, ai tanti fili di emozioni che viaggiano sulla linea della passione, creando innumerevoli ponti: apparentemente invisibili, ma che si materializzano ogniqualvolta un evento viene ricacciato fuori dall’oblio di una memoria incessante e inevitabile.
È un meridiano che, partendo da Sud, corre lungo l’appennino e si incastra pian piano tra le Langhe di Pavese, nel cuore caldo di un Nord che ha nomi, sembianze e battiti meridiani: grazie alle “calabrotte”, come le chiamò Nuto Revelli nel suo “L’anello Forte”. Donne semplici ma forti, partite dal Sud per darsi nuove possibilità, spinte via dalla propria terra, dagli affetti, dalla casa, un passo dietro l’altro, esortate dalle promesse dei bacialè, meschine figure che avevano fiutato l’affare dei matrimoni combinati e avevano creato, invece, ponti di carne umana; donne che non trovavano marito al Sud, perché ormai scarno di braccia umane rubate alla terra a favore di un progresso desiderato e spinto dai più, e uomini del Nord, contadini langaroli che alla terra non volevano rinunciare, ma non avevano possibilità di tramandare fatica e averi ad una prole che non poteva esserci, per la mancanza di donne che alla terra avevano preferito la città, una casa in condominio, uno stipendio sicuro.
“Calabrotte, calabresi, Napoli, eravamo delle donne oneste, pulite, lavoratrici che qui hanno trovato una vita e ci si sono arrampicate sopra. Un’altra vita. L’unica possibile.“
Le calabrotte diventano, così, lo zoccolo duro, e forte, di un racconto che ripercorre quel filo di memoria di cui per troppo tempo ci si era dimenticati e che, grazie alla storia di Dora Lucà, torna per recuperare un messaggio che oggi, come ieri (e come in ogni epoca), diventa indiscutibilmente prezioso e meritevole di attenzione:
“Ci salvano gli altri, sempre. È la lezione di questo bel romanzo. Gli altri, quelli a cui non pensiamo, quelli che non andiamo a cercare, quelli di cui sappiamo poco o niente. Quando stiamo per perderci, per esaurire le forze, loro arrivano e ci riportano al mondo. È successo migliaia di volte, nella nostra storia collettiva e probabilmente anche in quella individuale. Quante comunità, quanti territori si sono salvati perché è arrivato qualcuno “da fuori”. Quante etnie si sono, al contrario, perdute perché si sono isolate, i loro linguaggi non si sono evoluti, le loro sapienze non hanno fatto da base ad alcuno sviluppo.
Ripensare le mie Langhe accompagnato da questo racconto mi ha fatto riflettere su quanti occhi scuri, quante pelli olivastre, quanti sorrisi mediterranei hanno accompagnato la storia di queste terre durante i decenni della mia infanzia e della mia giovinezza. Succede ancora, dovunque.”
È questo il messaggio, chiaro e forte, che Carlo Petrini ribadisce, e mette in evidenza, nella prefazione al libro “Ti ho vista che ridevi”, edito da Rubbettino e scritto a più mani dal collettivo di scrittura calabrese Lou Palanca. Un libro che concede alla memoria, di certi nostri padri, e madri, un passo a ritroso per ripercorrere quelle strade di sacrificio e grande volontà, che hanno aperto varchi di speranza laddove tutto sembrava essere finito.
E hanno generato tracce: di esperienze autentiche, che creano precedenti e che diventano lezione di vita vissuta e di incontri, che si trasformano in occasioni di riscatto e di salvezza.
Perché succede ancora di essere salvati dagli altri e di trovare aiuto in chi crediamo “straniero”: perché non c’è comunità che non sia fatta dalle persone e le persone, nonostante certe apparenze, hanno sempre le sembianze della risorsa.
Come Dora, che se a casa sua non aveva più speranza di restare in vita, rinasce altrove, in un altro luogo, che diventa casa per lei e per la sua storia e si trasforma in possibilità, attraverso uno scambio di reciproca generosità.
Ti ho vista che ridevi è, quindi, la storia personale di Dora, della sua vita rubata che muta e rinasce. Dora, che è costretta a emigrare, da Riace alle Langhe, e a lasciare il figlio alla sorella: un figlio che non doveva nascere, ma che, invece, diventa il tramite, il ponte, per ridare luce ad una serie di vicende che, partendo dagli anni 60, si snodano attraverso le vite di più donne e più generazioni. Ma è, soprattutto, un racconto unico, corale, che recupera storie, vissute, di luoghi e di gente che alla migrazione deve tutto. Storie che partono da Sud, sempre, e ritornano, sul filo di quel meridiano, da dove sono partite, a raccontare il miracolo della disperazione che si trasforma in sogno.
E Riace, paesino della Locride in provincia di Reggio Calabria dal quale la storia di Dora ha inizio, è, oggi, l’esempio lampante di come certi messaggi, se recepiti nella giusta misura, possano dare vita a modelli di accoglienza e rinascita: per le persone ma anche per certi luoghi che hanno, solo apparentemente, un unico destino.
A Riace quei modelli esistono, e resistono, da decenni, e hanno avuto la forza di convertire un borgo destinato a morire, perché svuotato di anime e possibilità, in un luogo brulicante di occasioni: restituite alla sua gente da circa 400 migranti, che ne hanno ripopolato le case – abbandonate da chi è stato costretto ad emigrare al Nord e in America -, ricoltivato le terre inaridite e restituito luce all’oscurità di certi squallidi esempi, per la gente del luogo e non solo. Fin dal 1998, anno in cui una barca, fatta di volti, stranieri, venuti da lontano, incontra una comunità, evidentemente segnata da un destino comune, e contribuisce a rintracciare, attraverso uno sguardo rinnovato, i concetti di comunità, di accoglienza, di solidarietà, di ospitalità sui quali questi piccoli paesi della Locride, fatti di poche anime e molte case vuote, hanno deciso di (ri)edificare le proprie fondamenta, per evitare di crollare ma, soprattutto, per (ri)costruire una comunità che oggi continua a vivere.
E se è vero che, come dice – ancora – Carlo Petrini,” Siamo tutti stranieri, siamo tutti in cerca di salvezza, siamo tutti sulla terra di qualcun altro. Siamo tutti in attesa dell’invasione che ci salverà e ci porterà la soluzione che da soli non sappiamo inventare”, ecco che questo libro, questa storia, ce lo ricorda in maniera semplice e autentica, come semplici e autentiche sono le storie e i personaggi che racconta: quei vinti che, al contrario, hanno vinto, perché hanno saputo salvare se stessi e gli altri, oggi come ieri, creando legami ideali tra epoche diverse e storie che si assomigliano le une alle altre
Emanuela Gioia