Non posso negare di avere una predilezione per la letteratura femminile, soprattutto quando a scrivere sono certe Donne, con la “D”maiuscola, e a parlare, dietro la loro facciata, ci sono altrettante donne che provano a scandagliare quelle migliaia di sfumature che si nascondono dietro la fragilità dell’essere il “sesso debole”.
Solo in apparenza, però.
E dopo Elena Ferrante, Simonetta Agnello Hornby, Elsa Morante, Simone De Bouvoire (per citarne solo alcune) scopro con delicato stupore Donatella Di Pietrantonio, scrittrice abruzzese che con il romanzo “L’Arminuta” approda in Einaudi, dopo “Mia madre è un fiume” edito da Elliot nel 2011 e “Bella mia” che nel 2014 le è valso la partecipazione al “Premio Strega”. Un approdo meritatissimo che ha permesso a “L’Arminuta” di raggiungere un grande numeri di pubblico.
“L’Arminuta” racconta la storia di un ritorno. Un ritorno che diventa principio di una consapevolezza che si consuma, lentamente, lungo le pagine cariche di parole che sono come pietre, e che si trasforma in una meta che porterà “la ritornata” (è questo il significato del termine abruzzese “l’arminuta”) a quella parte più autentica di sé, facendola scontrare con una verità difficile da accettare ma, evidentemente, necessaria per completare il cerchio della sua esistenza.
A fare da contorno a questa storia, inquieta e malinconica per certi versi, pacata e vincente per molti altri, è quel filo sottile che intreccia le emozioni contrastanti proprie del rapporto madre/figlia, rapporto che la protagonista del libro si trova a dover affrontare secondo una prospettiva insolita, che ne sdoppia le emozioni e le certezze: certezze perdute ma anche ritrovate e rinnovate.
“Erano ai miei occhi le mamme normali, quelle che avevano partorito i figli e li avevano tenuti con sé. (…)Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.
Sono le paure che scaturiscono dalla condizione di un abbandono che si sdoppia e diventa ritorno: ritorno alla famiglia di origine, dalla quale era stata distaccata appena nata, e ritorno alla condizione di abbandonata dalla famiglia che se ne era presa cura fino ai 13 anni.
Due madri di cui nessuna “per sempre” e delle quali “l’arminuta” dirà:
“Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo piú da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.”
Ma come in ogni disperazione c’è sempre un fondo da toccare per risalire, poi, verso una nuova luce. Una luce che, in questa storia, si chiama Adriana. Figura esile per la condizione di povertà culturale che si porta addosso, contrapposta fortemente alla sorella ritrovata della quale apprezza il suo parlare l’italiano corretto e alla quale si aggrappa, voracemente, scorgendo in lei quella guida che fino a quel momento le era mancata.
È lei che restituisce all’arminuta quelle certezze perdute che si materializzano nel riconoscere in quella bambina, forte e tenace come una adulta, la grandezza di chi resiste alle tempeste della vita senza farsi piegare, trovando sempre il lato buono di ogni cosa e facendo di ogni esperienza un dono nel quale scavare fino a coglierne tutto il buono che c’è. Diventa così la salvezza, Adriana: l’approdo felice di quel ritorno che dopo molte insidie e turbamenti, restituisce un nuovo punto di partenza dal quale ricominciare.
“Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.”
Emanuela Gioia
«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo piú a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza».
Titolo : L’Arminuta
Autore: Donatella di Pietrantonio
Casa editrice: Einaudi
Anno di pubblicazione: 2017
Premio Campiello 2017
Dovrebbe essere più conosciuta all’estero…