Che cosa avranno mai in comune John Steinbeck e Carlo Levi?
Apparentemente nulla.
Da un lato, la polvere delle strade americane durante la Grande Depressione; dall’altro, i sentieri aspri e dimenticati di un Sud Italia immobile e abbandonato. Da un lato, la narrazione asciutta e diretta di Steinbeck, che lascia parlare i gesti e i dialoghi; dall’altro, la scrittura riflessiva e intima di Carlo Levi, capace di trasformare ogni dettaglio in una chiave di lettura universale.
Eppure, nonostante appartengano a mondi lontanissimi – per epoca, luogo e sensibilità-, questi due autori sembrano condividere un filo conduttore che li unisce e li porta su una strada comune: raccontare con profondità e dignità l’umanità che sta ai margini – quella fatta di uomini e donne che vivono ai confini della società, dimenticati e condannati a una vita di fatica e privazioni -, seppur con prospettive e sensibilità che non potrebbero essere più diverse, seguendo stili che riflettono in modo significativo le differenze dei contesti culturali e storici da cui provengono.
Una apparente distanza, dunque, capace di caratterizzare due modi distinti di raccontare il dolore, la speranza e quella dignità che si trova soprattutto nelle vite che sembrano essere più insignificanti. Due modi differenti che inseguono, però, lo stesso intento e riconsegnano alla letteratura quel suo sapersi fare specchio delle culture da cui nasce e, al contempo, ponte per comprendere e condividere valori universali.
Il realismo crudo del sogno americano
Ho una conoscenza scarsissima della letteratura americana, specie dei classici di cui ho sempre sentito dire e parlare e letto molto poco. Anzi, quasi nulla.
Ho voluto iniziare il nuovo anno con Steinbeck perché era da tempo che inseguivo il desiderio non solo di uscire dalla mia comfort zone, ma di fare un salto fisico e temporale proprio lì, nei meandri delle zone più remote – e non solo – di quel mondo d’oltreoceano che ha saputo sfornare capolavori capaci di raccontare l’essenza più cruda e autentica dell’umanità.
E Uomini e Topi è proprio uno di quelli. Un capolavoro in cui la narrazione ha la capacità di trasformare la polvere delle strade in poesia, laddove esiste una umanità che lotta e resiste e che prova, con tutta sé stessa, a trovare un senso nella fatica e persino nel fallimento.
La prima sensazione, quella proprio delle prime pagine, è stata esattamente quella che immaginavo: sentir parlare di un mondo che non conosco se non attraverso i ricordi di certi telefilm che guardavo da bambina.
Un mondo che vive e parla e si muove in una maniera completamente diversa da quella a cui sono abituata: quella vissuta, cementata nei ricordi di cose viste e sentite raccontare e lette nella storia di un paese – il nostro – completamente diverso nella struttura, nello stile di vita, nell’approccio alla vita stessa, e nella profondità del vissuto anche – o forse soprattutto – di quell’umanità di scarto che molte voci hanno saputo valorizzare.
Ed è incredibile quanto, nonostante l’intento sia identico, diventa diverso il modo in cui ogni cosa si svolge: gli ambienti, i dialoghi, i rapporti tra gli uomini, la modalità totalmente diversa di raggiungere certe profondità d’animo con manifestazioni che nulla hanno a che vedere con ciò a cui noi siamo abituati.
Quello di Steinbeck è un racconto in cui l’essenzialità dello stile diventa il riflesso della durezza della vita dei suoi personaggi e della loro autenticità. Un racconto che pone l’accento su una sorta di ossessione per le descrizioni dei luoghi e che si contrappone alla nostra letteratura, fortemente introspettiva, che più che certi luoghi fisici è capace di raccontare i luoghi dell’anima, descrivendone le emozioni che si trasformano in immagini.
Un racconto che sembra mettere in parole quella superficialità che etichetta l’America, ma che poi scopri che tutto è tranne che superficialità. Il racconto è asciutto, diretto, senza fronzoli, con immagini chiare e intense che vengono fuori dalle descrizioni millimetriche di tutto quello che sta intorno a chi parla e dai dialoghi serrati e certe volte violenti, nel loro essere diretti e apparentemente privi di qualsiasi ornamento emotivo o morale, capaci di dare un senso di immediatezza e autenticità.
Le descrizioni dei paesaggi, degli spazi e degli oggetti sono attente, meticolose, quasi fotografiche, ma non si perdono mai nel superfluo: tutto ha una funzione, tutto serve a far emergere il contesto e il carattere dei protagonisti e, di conseguenza, le loro emozioni che sembrano non venire mai fuori, ma che – invece – hanno la capacità di straripare e di entrarti dentro come una lama affilata, quasi senza averne consapevolezza. E poi i dialoghi, crudi e schietti, che svelano l’anima dei conflitti, delle paure e delle speranze di chi li pronuncia, presentando un racconto che si muove con la stessa determinazione con cui i suoi personaggi vivono: senza possibilità di deviazioni o illusioni, diretto verso un finale tanto inevitabile quanto spietato.
Un racconto, quello di Steinbeck, che tira fuori la parte più dura e feroce e disillusa del sogno americano, dove le aspirazioni si infrangono contro la realtà di un sistema che non lascia spazio ai deboli o agli emarginati, dando voce a un’umanità spezzata e priva di un reale riscatto, in cui i personaggi cercano di aggrapparsi a sogni fragili e spesso illusori, che diventano necessità per sopravvivere alla monotonia e alla disperazione più che reali possibilità.
Due sguardi sull’umanità: il realismo di Steinbeck e l’introspezione di Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli
Il 4 gennaio di quest’anno ha segnato i cinquant’anni anni dalla morte di Carlo Levi e questa occasione, insieme ad un confronto con un amico, mi ha spinto a riprendere in mano uno dei suoi capolavori, Cristo si è fermato a Eboli. Immergermi nuovamente nelle pagine di quello che, se credessi davvero nel fatto che possa esserci una classifica di libri preferiti, penso che potrei tranquillamente includerlo tra i primi posti, se non proprio al primo, ha incoraggiato una riflessione scaturita, come spesso accade, da una sovrapposizione di letture.
Un confronto nato casualmente, quello tra John Steinbeck e Carlo Levi, che però mi ha subito fatto cogliere certe distanze che sono, poi, le distanze di due mondi che anche nella letteratura e nel racconto sanno farsi specchio di cose vissute e di sensibilità radicate in contesti culturali e storici profondamente diversi.
Due visioni opposte che nel loro intento di raccontare storie non si limitano solo alla narrazione, ma riflettono i valori, le priorità e le tensioni di mondi apparentemente lontani e inconciliabili.
Da un lato Steinbeck, che ci porta nell’America rurale e travagliata e descrive con un realismo essenziale le lotte quotidiane di un’umanità ai margini, mostrandoci la vita attraverso i gesti essenziali e i dialoghi dei suoi personaggi e restituendoci una visione concreta e spesso asciutta della loro esistenza; dall’altro Levi, che guarda con apparente distanza all’Italia contadina e dimenticata, scavando e immergendosi con profonda consapevolezza nell’interiorità dei personaggi e delle vicende narrate, e trasformando il racconto in una meditazione intima e profonda sulla condizione umana capace di restituire un affresco carico di simbolismo e riflessioni universali.
Nel Cristo si è fermato a Eboli di Levi, l’umanità marginale non è solo raccontata, ma filtrata attraverso uno sguardo che cerca costantemente il senso profondo della sofferenza, dell’abbandono e della resilienza di un’umanità dimenticata. È un approccio che non si limita a narrare, ma che riflette e medita, trasformando ogni dettaglio in un simbolo, ogni gesto in una chiave di lettura più ampia.
La distanza tra i due stili è affascinante: Steinbeck sembra costruire il suo mondo narrativo dal di fuori, con uno sguardo che osserva e prova a descrivere ogni cosa esterna per raccontarne l’essenza, Levi, invece, si immerge completamente dentro alle cose, alle vicende, alle persone, alle loro vite, facendoci percepire il battito interiore di quella umanità dimenticata a cui prova a dare voce attraverso immagini che sanno essere più intime.
Ed è affascinante quanto queste due visioni, seppur con approcci completamente opposti, siano capaci di condividere lo stesso obiettivo, che altro non è se non il bisogno di dare dignità a chi è stato lasciato ai margini, la necessità di restituire valore e significato a vite spesso considerate insignificanti, l’urgenza di dare voce a chi non l’ha mai avuta, rendendo visibili le storie di quell’umanità di scarto che molte voci hanno saputo valorizzare.
Steinbeck lo fa con una narrazione essenziale, che mette in primo piano le azioni e i dialoghi, lasciando che siano i personaggi stessi a raccontarsi attraverso la loro quotidianità. Levi, al contrario, si immerge nelle pieghe più intime dell’anima, trasformando ogni esperienza in una riflessione universale, capace di parlare a tutti attraverso una profonda empatia.
Una diversità di approcci che mi ha subito aperto a una nuova prospettiva: nuova e affascinante, nella misura in cui diventa, ogni volta, un modo per riflettere su come la letteratura sappia farsi specchio di realtà tanto lontane e, al contempo, diventare portatrice di valori comuni. Levi e Steinbeck raccontano entrambi l’umanità di scarto e, seppur con prospettive e stili così distanti da risultare quasi opposti, riescono entrambi a svelare ciò che conta sopra ogni cosa: la dignità e il significato profondo di ogni vita umana.
Emanuela Gioia
Grazie per questa bella e approfondita analisi/riflessione. Amiamo gli scrittori che sanno stare ai margini…
Grazie a te, caro Tommaso, per essere passato da qui. Eh sì, li amiamo immensamente