Cosa succede se nel 1970 hai 20 anni e ti innamori di un ragazzo del tuo stesso sesso e decidi di assecondare quell’amore? E ancor più se vivi in Calabria, in un piccolo paese dell’Aspromonte, cosa succede?
Nunzio Lo Cascio è un giovane dalla bellezza greca, bello dentro e fuori, ed è innamorato di Antonio. I due si amano e sfidano la paura del giudizio, il rischio di essere scoperti e soprattutto, assecondano un amore tanto forte quanto pericoloso: specialmente se sei figlio di una terra che fa il paio con la violenza dei sentimenti, quelli che non ti scegli ma che ti vengono imposti da un modo di essere: perché cosi è.
Inizia cosi questa storia di morte e disperazione – ma anche di vita e forza – che si alterna tra due periodi e due storie diverse. Due punti di vista che si intrecciano e diventano un tutt’uno, annodati da un legame di sangue e dalla voglia di riscatto che preme l’anima di due vite apparentemente perse.
Nunzio e Annina sono zio e nipote. Non si sono mai visti, ma si conoscono grazie a nonna Carmela, mentore inconsapevole e figura di snodo in questa vicenda che incolla il lettore ad ogni pagina: ad ogni singola parola e immagine.
“Quando morì zio Nunzio, avevo otto anni e il funerale me lo ricordo ancora. Arrivò una macchina da fuori, nera e lucida con una scritta d’oro sul vetro, piena di fiori rossi e bianchi. Si fermò sulla piazza davanti alla chiesa e c’era tutto il paese ad aspettarla, anche il sindaco e la banda. Quattro uomini tirarono fuori una cassa e la presero sulle spalle, tutti vestiti di nero. Il resto non me lo ricordo, ma mi ricordo di preciso quando la calarono nella fossa, la banda che suonava e tanta gente attorno. Nonna Carmela vestita di nero che piangeva dentro un fazzoletto, e anche mio padre vestito di nero, e zio Rocco e zio Giuseppe. Ma non piangevano. (…) l’unica che piangeva veramente era nonna Carmela. E continuò a piangere e a portare i garofani bianchi e rossi a zio Nunzio tutte le settimane, finché riuscì a trascinare le gambe al cimitero”
È la morte che tiene in piedi la narrazione. La morte che si trasforma e diventa bisogno di andare oltre, di vincere i pregiudizi, di saltare il fosso costi quel che costi. C’è una morte violenta che apre la storia e, man mano che le vicende si accavallano, questa diventa sempre più rivelatrice di verità, di voglia di vivere e di quella forza che, nonostante le inquietudini ostinate e profonde che i due protagonisti si portano addosso, apre spiragli alla speranza. Ogni parola, ogni gesto, ogni riflessione, ogni azione: tutto è impregnato di dolore. Un dolore che non si fa rassegnazione, ma voglia di rivalsa: due sentimenti contrastanti, gli unici che può provare chi si vive addosso la condizione di ultimo, emarginato, reietto.
Nunzio vive il dolore di essere gay e la colpa di una morte assurda voluta dalla sua famiglia per offuscare la vergogna. Viene allontanato dal paese e mandato a Londra, dove, nonostante il macigno che lo opprimerà per diversi anni, troverà la forza di riaprirsi alla vita, alle emozioni, ai sentimenti che non avrà più bisogno di nascondere. Annina sente il peso della famiglia, di un padre, capo di una ‘ndrina al suo paese, che la vorrebbe sposata ad un uomo del posto e parte di un mondo che lei non riconosce e dal quale tenta di scappare più volte per inseguire la sua passione più grande, fare teatro, e quella più naturale e spontanea, la libertà:
“Quando morì zio Nunzio, avevo otto anni e il funerale me lo ricordo ancora. Arrivò una macchina da fuori, nera e lucida con una scritta d’oro sul vetro, piena di fiori rossi e bianchi. Si fermò sulla piazza davanti alla chiesa e c’era tutto il paese ad aspettarla, anche il sindaco e la banda. Quattro uomini tirarono fuori una cassa e la presero sulle spalle, tutti vestiti di nero. Il resto non me lo ricordo, ma mi ricordo di preciso quando la calarono nella fossa, la banda che suonava e tanta gente attorno. Nonna Carmela vestita di nero che piangeva dentro un fazzoletto, e anche mio padre vestito di nero, e zio Rocco e zio Giuseppe. Ma non piangevano. (…) l’unica che piangeva veramente era nonna Carmela. E continuò a piangere e a portare i garofani bianchi e rossi a zio Nunzio tutte le settimane, finché riuscì a trascinare le gambe al cimitero”
Entrambi sentono il peso di quel loro essere dei fuggitivi. Ne subiscono il senso di colpa e l’abbandonarsi in un percorso di rinuncia a quello che vorrebbero essere davvero. Un percorso che, però, darà loro l’essenziale per cambiare traiettoria, per svoltare nella direzione che non avevano mai visto e di cui non avevano cognizione, nonostante il bisogno e la ricerca costante e ininterrotta.
Si ritroveranno, Nunzio e Annina, a distanza di tempo: ma solo nell’essenza che l’anima di Nunzio lascia come eredità e insegnamento a quella nipotina che tanto avrebbe voluto conoscere. Lo zio Nunzio diventa, per Anna, guida e cammino: un cammino che la conduce, attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto e amato, su una traiettoria rinnovata, da seguire e non più da inseguire, che diventa il filo di unione e di riappacificazione tra la vita e la morte, tra il passato e un futuro ancora tutto da costruire.
L’unica testimone di questa unione sarà, ancora, nonna Carmela: l’unica che tornerà a dare forza ad Annina in un dialogo surreale, intriso di verità e dolore, che chiede perdono e incoraggia il riscatto. Una testimonianza del dolore che passa la staffetta al desiderio di assecondare la vita, che tende la mano in segno di riappacificazione e che chiuderà un cerchio.
“«Vattene» dice la nonna «(…) e riportati questa. Il suo posto non è qui, questo è per me che ci sto inchiodata, lui se ne andò e non volle più tornare. E fece bene. (…). Riportalo a casa».
Adesso piange nonna Carmela, o forse è la pioggia che si è fatta più fitta e scorre sul vetro della foto o forse sono io. Mi avvio verso il cancello e nel momento in cui lo varco sento ancora la sua voce, alta e squillante questa volta, quasi da ragazza.(…)
E subito dopo la risata, prima in sordina e poi in crescendo. Sale la risata di nonna Carmela e s’allarga, scuote le cime dei cipressi, rovescia i vasi leggeri e strappa i fiori secchi. Solleva le falde del mio capotto e mi spinge avanti.
«Vai, Annina» sembra dire. «Vai!»”
DALLA QUARTA DI COPERTINA:
È una sera di giugno del 1970 in un piccolo paese della Calabria, Nunzio e Antonio hanno vent’anni e si amano, in segreto, da due mesi. Il loro amore si consuma dentro la vecchia Fiat del padre di Antonio, parcheggiata in uno spiazzo abbandonato. Ma, proprio quella notte d’estate, tre uomini incappucciati e armati trascinano Antonio fuori dall’auto, colpendolo fino a quando il giovane non giace a faccia in giù e a braccia aperte, come un Cristo in croce. Tre giorni dopo Nunzio Lo Cascio sparisce dal paese, messo su un treno che da Reggio Calabria lo conduce lontano, a Londra. Il mondo, all’improvviso, gli ha mostrato il volto più feroce, quello di un padre e due fratelli che «gli hanno spezzato le ossa a una a una» per punirlo del suo “peccato”. Nulla sembra avere più senso per il ragazzo: la fiducia negli uomini, la speranza di un futuro, la sua stessa identità. Di lui rimane soltanto la foto del campionato del ’69, appesa nella pescheria dei genitori, che lo ritrae con tutta la squadra sul campo dopo la vittoria, promessa mancata del calcio. A interrogarsi sulla vita di Nunzio è anni dopo sua nipote Annina, che sente di avere con quello zio mai conosciuto, di cui nessuno in famiglia parla volentieri, inspiegabili affinità. Anche Annina, sebbene in modo diverso, si trova a combattere con un padre violento e prevaricatore e con la stessa realtà chiusa del paese, in cui una ragazza non ha altre possibilità che essere una «femmina obbediente». E, come Nunzio, scoprirà la dolorosa necessità di riprendersi il mondo, ribellarsi ai pregiudizi e lottare per la propria libertà.
Titolo : Il figlio prediletto
Autore: Angela Nanetti
Casa editrice: Neri Pozza
Anno di pubblicazione: 2018
Il libro è nella dozzina candidata al Premio Strega 2018