Di Giuseppe Berto avevo trovato, tempo fa, rovistando come sempre nella libreria di mio padre, due suoi libri: “Il male oscuro” e “La cosa buffa”. Ricordo bene che, a quel tempo, mi aveva colpito molto la distanza, evidentemente apparente, tra due titoli che sembravano divergere così tanto, ma che erano invece – avrei scoperto più avanti – le due facce di quella stessa medaglia che tormentò lo scrittore per il resto della sua esistenza: una depressione profonda, rimasta latente per molti anni e scatenatasi, poi, in seguito alla morte del padre; quel male che Gadda, ne “La cognizione del dolore”, aveva definito oscuro:
“Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato”.
Un male che lo portò a lottare contro un disturbo profondo, che gli causò una serie di nevrosi, che lo portarono persino in sala operatoria inutilmente.
Due libri che diventano l’uno il completamento dell’altro: se “Il male Oscuro” diventa un modo per scandagliare, grazie alla scrittura, quel malessere attraverso una osservazione profonda di sé stesso e di quel male, “La cosa buffa” sarà il modo per guardarlo dal di fuori e con ironia, modalità che diventa, attraverso il suo contrario, il primo passo verso la guarigione. Seppur di guarigione non si può parlare, come dice lo stesso Berto nell’Appendice al Male Oscuro, l’ironia sarà la guida verso un percorso di accettazione che pian piano gli darà la possibilità di affrontare le sue paure e di non esserne più schiacciato.
È, infatti, proprio grazie alla scrittura di questo romanzo che Berto riuscirà a finire Il Male oscuro, rimasto fermo “per omnia saecula saeculorum alle soglie del quarto capitolo” come lui stesso scriverà, dietro suggerimento del suo analista che gli consigliò di guardare al suo male da una prospettiva diversa per esorcizzarlo e dipanarne le fila. Esperimento che riuscì a sbrogliare, finalmente, la sua paura più grande, quella di non riuscire più a scrivere, e che gli consentì di terminare il suo libro più conosciuto.
Perché “Il male oscuro” è sicuramente, per chi conosce Giuseppe Berto, il primo titolo che gli viene associato, ma Giuseppe Berto è anche altro ed è, soprattutto, uno scrittore di cui si parla ancora troppo poco e la cui importanza letteraria è rimasta relegato nell’oblio per molto tempo.
Per fortuna i tipi di Neri Pozza stanno portando avanti la ripubblicazione delle sue opere, di cui al momento sono presenti in catalogo quattro titoli – Il male oscuro; Anonimo veneziano; La gloria; Il cielo è rosso. Un progetto che continuerà, in futuro, a riportare alla luce altri suoi romanzi, ma soprattutto a restituire a questo importante scrittore la giusta rilevanza nel panorama letterario del Novecento.
IL CIELO È ROSSO
“Il cielo è rosso” è il romanzo d’esordio di Giuseppe Berto. Viene pubblicato nel 1946 da Leo Longanesi, dietro indicazione di Giovanni Comisso a cui Berto, al suo rientro in Italia, decide di consegnare il manoscritto concepito durante la sua prigionia in un “Fascist camp” americano, a Hereford nel Texas. Comisso ne è entusiasta, tanto da corredarlo di una lettera di accompagnamento in cui dirà che il romanzo «rappresenta una svolta nella letteratura italiana». Una svolta per l’immediatezza con cui il racconto arriva dritto alle persone, attraverso fatti che parlano di guerra, ma parlano anche dell’universalità del male che si contrappone alla solitudine dei singoli individui, che vivono certi fatti senza essere né vincitori né vinti, ma solo con la speranza di poterne uscire illesi, in qualche modo.
È uno dei primi romanzi pubblicati in cui gli avvenimenti narrati si svolgono sul finire della Seconda guerra mondiale. Un elemento da cui trae certamente forza: una forza che si fa spazio tra le parole e le immagini che Berto, con la sua narrazione lenta e allo stesso tempo immediata, ha avuto la capacità di confezionare come fossero le parole e le immagini a contenere quelle stesse vicende.
Parole e immagini che costruiscono un racconto che quasi si discosta dall’orrore delle vicende narrate, quasi a voler creare intorno a Carla, Giulia, Tullio e Daniele, una campana di vetro dentro la quale farli sentire al sicuro, nonostante il loro vissuto e le vicende che si trovano costretti a dover affrontare per sopravvivere al nulla che gli scorre tutt’attorno. Quel nulla che sopravvive alla devastazione fisica e spirituale dei luoghi e delle persone, quello che la guerra è capace di costruire con basi solide e dure da smantellare.
Un rifugio che prova a salvare quattro ragazzi, sopravvissuti al bombardamento americano di Treviso, dal disincanto in cui si ritrovano scaraventati senza possibilità di redenzione. Un disincanto che rischia di prendere il sopravvento su delle anime ancora troppo fragili, costrette a crescere troppo in fretta.
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“Il cielo è rosso” l’ho preso in mano dopo aver letto “La trilogia della città di k” di Agota Kristof.
Sono entrambi libri che parlano della guerra e della devastazione che questa provoca nella vastità della sua spietatezza.
Non voglio fare un confronto tra i due libri, ma solo riportare una riflessione fatta pensando alle due narrazioni, alle vicende che vengono raccontate e alle modalità con le quali prendono forma nello scorrere delle pagine. C’è una cosa di cui ogni volta mi sorprendo, ed è la consapevolezza che, ogni volta che leggo un nuovo libro, mi arriva dal constatare quanta diversità possa esserci nel racconto, nella narrazione di una storia. Le parole, l’uso che se ne fa, il tono della voce, l’intenzione, la distanza da quel che si racconta o, viceversa, l’esserci dentro con l’anima, l’empatia che si è capaci di creare con i personaggi che si raccontano e anche con chi legge, sono tutti elementi che fanno la differenza. Differenza che non vuol dire che un libro sia migliore di un altro, almeno non sempre, ma differenza che vuol dire che è bellissimo scoprire che esistono tanti modi di raccontare una storia: ognuno con la sua forza, la sua delicata armonia, il suo elemento distintivo e caratterizzante.
Nel caso dei due libri citati, è sorprendente constatarne la distanza abissale della modalità del racconto, pur narrando entrambi di guerra e di un periodo difficile per dei ragazzi che si trovano a vivere una delle esperienza più dilanianti, che però in entrambi ha la stessa forza di entrarti dentro e crearti delle ferite, dei pertugi, all’interno dei quali quella storia si insinuerà per rimanerci a sedimentare e creare una nuova consapevolezza.
Una distanza dovuta al fatto che chi li scrive, quei fatti, li ha certamente vissuti in maniera diversa e quel che riesce a raccontare non è altro che ciò che, di quel che ha vissuto sulla propria pelle, come nel caso della Kristof, o che ha accolto da distante, come nel caso di Berto, si è depositato a decantare negli angoli più intimi. Una distanza che dalla memoria o dal sogno, genera parole che possono essere pietre o carezze, pur raccontando gli stessi identici orrori.
La Kristof rende il racconto molto fluido, scorrevole. Un racconto che ti prende in mezzo e ti fa scivolare tra le parole lucide, chiare, leggere con una velocità che non lascia spazio alle pause e ai ripensamenti: una semplicità, nella chiarezza del linguaggio e del racconto, che si contrappone alla profondità delle cose che riporta, quasi a voler diventare un esercizio di salvezza: come se quel distacco potesse in qualche modo elaborare e vomitare fuori da sé stessa quegli orrori vissuti.
Berto, invece, della guerra racconta i particolari di ogni giorno, quelli con cui, chi si trova a vivere quelle vicende, si scontra quotidianamente nello scorrere lento dell’attesa della fine. Una fine che sembra non arrivare mai e che diventa una meta evanescente e irraggiungibile, ma alla quale nessuno rinuncia, neanche per un attimo.
Due libri così vicini, per i fatti narrati, ma allo stesso tempo così distanti nella diversità dei tempi del racconto.
In Berto, infatti, salta subito all’occhio modalità descrittiva che diventa prevalente. Addirittura sostanziale. Descrittivo e riflessivo su ogni particolare, Berto accompagna le parole e le immagini e le movenze dei personaggi con una lentezza che rallenta persino la lettura. Una lettura che diventa un piacevole soffermarsi su ogni singola parola e ogni singola immagine di quel che lo scrittore riesce a farci vedere in maniera palpabile, quasi come se ogni cosa si potesse toccare con mano.
A differenza della Kristof, che viaggia come un treno verso una meta di cui si perdono le tracce man mano che si procede nella lettura e che asseconda, con la stessa velocità, il bisogno di arrivare in fondo, come quando sei in un tunnel e l’unica cosa che vuoi è vedere la fine, Berto ci accarezza con la leggerezza di un percorso lento, che viaggia sui binari e non si discosta mai dalla traiettoria prefissata. La Kristof ci schiaffeggia con la veemenza e l’impeto di chi, saltando da un luogo ad un altro, perde spesso la strada e la cerca incessantemente, a scapito di qualunque altra cosa.
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“Ma l’umanità non può andare avanti nel male in questo modo – disse il vecchio-. Bisognerà che un giorno ritrovi se stessa, e allora un più grande bene verrà a tutti gli uomini, ai poveri e ai ricchi, a quelli che hanno perso e a quelli che hanno vinto. Io penso continuamente a queste cose e sono certo che verrà un tempo migliore. Non so quando, ma verrà. E se io non avrò la forza di arrivare a quel punto, non importa. Ma tu devi arrivare e tutti quelli che sono come te, giovani con la bontà nel cuore. Voi non dovete lasciarvi andare. Avete la vostra missione da compiere nel mondo, perché gli uomini diventino più buoni e dimentichino la violenza e l’odio, e sappiano perdonarsi il male che si sono fatti.”
Nonostante la tristezza dei fatti narrati, ho trovato la narrazione di Berto tra le più belle e delicate incontrare fino ad oggi.
Emanuela Gioia
Titolo : Il cielo è rosso
Autore: Giuseppe Berto
Casa editrice: Neri Pozza
Anno di pubblicazione: 2018
Prima edizione: Longanesi e C. 1946