La società in cui viviamo, con i fatti che accadono e le nuove tendenze che periodicamente si susseguono, è in continua evoluzione. I cambiamenti avvengono a volte in maniera morbida, indolore, dolce, mentre altre volte ci arrivano addosso come meteoriti spuntate dal nulla e senza possibilità alcuna di controllo.
Sono cambiamenti che influenzano e continuano ad influire su quella “mutazione antropologica” iniziata, in tempi non sospetti, quando negli anni cinquanta/sessanta esplose quello che fu definito il boom che ribaltò il sistema economico italiano, facendolo passare in maniera repentina dal settore agricolo a quello industriale.
L’espressione “mutazione antropologica” – rigorosamente virgolettata – è presa in prestito da un concetto molto caro a Pier Paolo Pasolini; concetto su cui si accanisce molto negli ultimi anni della sua attività, mettendo in luce il suo essere non solo poeta, scrittore e regista, ma prima di ogni cosa attento osservatore della società, con una sottile e lucida capacità di proiezione verso il futuro.
Pasolini fu una voce discordante rispetto al coro di visioni positive che scorgevano nel boom un momento di grande rinascita del paese il quale, piegato in due dalla guerra e da tutto ciò che di negativo ne era derivato, aveva una grande necessità di rimettersi in piedi. E, apparentemente, non vi era nulla che potesse far pensare che non si trattasse di un vero e proprio rinnovamento, grazie a tutta una serie di novità che avevano come obiettivo quello di migliorare lo stile di vita degli italiani: i salari aumentavano grazie al lavoro che stava cambiando, i contadini abbandonavano la terra per trasferirsi nelle città e impiegarsi al servizio delle fabbriche e della produzione che doveva stare al passo delle sempre più alte richieste del mercato.
Le trasformazioni economiche diedero una spinta anche a quelle sociali, tanto che negli anni settanta le novità toccarono anche l’ambito dei diritti civili e, grazie ai referendum abrogativi, furono approvate molte leggi importanti come la legge sul divorzio o quella sull’aborto.
Era l’inizio della modernità, del progresso, della convinzione che tutto quel poter fare tutto, senza più imposizioni dall’alto che intaccassero la libertà, rendesse davvero liberi tutti di scegliere ciò che era giusto per sé stessi e per la propria vita.
Il consumismo omologante
Dal 1973 fino al 1975, anno della sua tragica morte, rimasta ancora oggi avvolta in un velo spesso di mistero e bugie, Pier Paolo Pasolini riserva molte riflessioni alla sua visione apocalittica del nuovo sistema consumistico che – a parer suo – stava trasformando la vecchia società, fondata su valori autentici e sulla diversità di certi valori che era prima di ogni cosa ricchezza culturale, in una società omologata e piatta, dove tutti iniziavano a poter avere tutto, a prescindere dal ruolo sociale o professionale, con la stessa facilità. Una trasformazione apparentemente positiva, ma che secondo Pasolini avrebbe portato l’Italia ad un imbarbarimento.
L’inizio della modernità stava cambiando per sempre le tradizioni culturali e i valori degli italiani, stravolgendone il tessuto sociale e mettendo in atto una mutazione, appunto, destinata negli anni ad altre trasformazioni per nulla positive.
Tutta la sua produzione di quegli anni è concentrata sulla necessità di contestare quello che stava avvenendo in termini di svilimento culturale e sociale, provando ad argomentarne le fila con qualunque mezzo: ne parla, ne scrive e ci costruisce sopra anche dei film. Dagli articoli usciti su alcune delle principali testate nazionali – che possiamo rileggere nelle due raccolte Scritti Corsari e Lettere Luterane –, ai romanzi, alle interviste, ai film, tutto diventa materiale utile per tessere quella trama a supporto di un racconto che prova a documentare il suo disappunto e la sua preoccupazione.
Argomentazioni che partono da una spietata critica al consumismo, reo di essere il fenomeno principe, l’artefice di una delle più radicali trasformazioni nella società italiana, la cui conseguenza fu una sempre più evidente omologazione culturale che, pian piano, stava distruggendo le culture particolari: quelle legate ai territori, alle tradizioni, alle pratiche di vita di un popolo che da un momento all’altro si era visto ribaltare sotto gli occhi le priorità dei valori, attuando quella che, secondo Pasolini, fu una delle dittature più violente e più omologanti in termini assoluti.
Ma la sua voce rimane perlopiù sola e, anzi, diventa spesso e volentieri bersaglio di critiche e addirittura derisione. Polemico e sempre inconciliabile in mezzo ad altre voci, il suo argomentare in senso negativo non trova eco in mezzo al vociare diffuso che sostiene il fenomeno del miracolo economico, specie a quello di altri intellettuali, la cui visione positiva e fiduciosa li rende integrati al sistema di cambiamento in atto.
Destra o sinistra?
Sono anni che la “destra” e la “sinistra” si contendono l’appartenenza del pensiero di Pasolini. Il virgolettato è d’obbligo perché, a conti fatti, certi termini in Italia hanno solo la differenza di due parole svuotate di significato politico.
Ma Pasolini non fu mai di destra né totalmente di sinistra, perché il suo pensiero, libero da qualunque condizionamento o partigianeria, sapeva distinguere con lucidità, in ogni singola circostanza, ciò che era giusto o sbagliato, a prescindere da quel che apparentemente quella circostanza volesse sembrare.
Il suo nome è sulla bocca di tutti ogni volta che si vuole portare avanti una qualsivoglia tesi di giustizia, scimmiottando, spesso a sproposito, le sue argomentazioni profetiche e il suo saper essere schietto e disinvolto e vessillo di verità a tutti i costi, anche a costo della propria vita.
Quando il 14 Novembre 1974 scrive quello che nel libro Scritti Corsari ha il titolo di Il romanzo delle stragi – il famoso “Io so”, pubblicato dal «Corriere della Sera» con il titolo Che cos’è questo golpe? – decreta formalmente la fine di un suo percorso di verità: e tant’è. Dopo un anno esatto, il 2 Novembre 1975, viene barbaramente ucciso rimanendo, di fatto, senza verità e senza giustizia, trattato, tra l’altro, come il peggiore degli uomini per la sua omosessualità.
Scrive:
“Io so i nomi, ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto quello che succede, che coordina fatti anche lontani, che mette assieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembra regnare: l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. […] Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.”
Una denuncia di non poco conto, che chiarisce ogni dubbio, laddove ve ne siano quando si conosce l’opera di Pasolini.
E chi conosce l’opera di Pasolini sa quanto le sue argomentazioni, le sue idee, i suoi sentimenti autentici, la sua verità, non abbiano appartenenze né politiche né di tipo intellettuale, quanto prettamente sociale e civile.
Ciò che più di ogni altra cosa lo spinge a denunciare e a polemizzare, durante il suo periodo corsaro, dal 1973 in poi, è l’angoscia che prova di fronte al mutare della realtà sotto gli occhi di tutti e all’insensibilità con cui certi intellettuali “integrati” ne osservano il progredire, esprimendo un ottimismo pieno, senza possibilità di sfumature o dubbi che possano allargare lo sguardo di fronte a ciò che altro non è, secondo la sua visione, se non pura illusione. In quel mutare lui vede solo il tragico destino di un futuro che avrebbe risentito di quel processo irreversibile di distruzione di un mondo fatto di valori in nome di un progresso che progresso non era, se non sulla carta.
Nell’articolo Gli italiani non sono più quelli, apparso il 10 Giugno 1974 sul «Corriere della Sera», che possiamo rileggere in Scritti Corsari con il titolo 10 giugno 1974: studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, Pasolini parte dall’assunto che la vittoria del no al referendum abrogativo del 12 Maggio 1974 – promosso dalla Democrazia Cristiana per abrogare la norma che aveva liberalizzato in Italia il divorzio – in realtà non fu una vittoria perché non vide alcun partito politico davvero vincitore.
I democristiani furono sconfitti perché non ebbero la capacità di vedere quanto la società fosse cambiata e quali fossero davvero i nuovi bisogni, le nuove necessità e soprattutto i nuovi desideri di una nazione che stava correndo – evidentemente – più veloce di quanto la politica potesse, e sapesse, fare. Allo stesso tempo, questa sconfitta dei democristiani non poteva ritenersi nemmeno automaticamente una vera e propria vittoria della sinistra.
Scrive nell’articolo:
“La vittoria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato- in modo oggettivo e lampante – infinitamente più «progredito» di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale. Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la «guerra di religione» ed erano estremamente timorosi sull’esito positivo delle votazioni.”
Dunque quella vittoria del no non rappresentava affatto “una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia”, ma era la dimostrazione palese della mutazione antropologica in atto da circa 10 anni della nuova classe borghese di cui, in maniera del tutto evidente, la classe politica nemmeno si stava rendendo conto.
“[…] i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo. […] l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.)”
Per P.P.P. tutto parte da lì: il fascino dell’edonismo, incoraggiato dalla nuova società consumistica e sostenuto dalla cultura di massa, con la partecipazione attiva della televisione, aveva permesso quel cambiamento nella società italiana che, partito da una perdita di identità sociale e di conseguenza personale, era sfociato, poi, in una omologazione di cui già in quegli anni Pasolini aveva intravisto la pericolosità.
Una visione apocalittica, ma che in realtà lo era solo apparentemente, perché di fatto non era una visione che rimaneva salda sulle proprie idee solo per partito preso, ma aveva il sapore di una osservazione attenta che sapeva vedere oltre e che in quel nuovo fascismo intravedeva un pericolo per il futuro e per quello che la nuova società sarebbe diventata.
Per Pasolini quella nuova modalità di persuasione stava cambiando per sempre il modo di essere degli italiani. Una sorta di presagio che negli ultimi anni della sua produzione diventa una ossessione su cui concentra tutte le sue forze per provare a individuarne le cause e soprattutto gli effetti, presagendone persino quelli a lungo termine: anche quelli che non avrebbe mai potuto avvalorare.
Una visione, la sua, molto contestata per le sue tesi considerate inopportune e persino scandalose, ma che di fatto sono il seme di ciò che negli anni abbiamo visto crescere prepotentemente: con la televisione, prima, e in special modo oggi con l’Internet e con i social, diventati il primo mezzo di raccolta, e di propagazione serrata, di ogni persuasione.
Il potere che mercifica i corpi
Se Pasolini non fu mai davvero né di sinistra né di destra, di sicuro uno dei punti fermi di tutto il suo pensiero che rispecchia, poi, tutta la sua produzione letteraria, poetica, cinematografica e intellettuale, è il suo sentimento di disprezzo e di odio di fronte al fascismo in ogni sua forma.
Che fosse quello rappresentato dalle violente espressioni storiche o dalle nuove manifestazioni della società borghese e del consumismo omologante, per Pasolini il fascismo è sempre stato un cancro da combattere.
Il nuovo fascismo contro cui si batte durante il suo periodo corsaro, quello della società dei consumi e dell’omologazione, è a suo avviso ancora più subdolo e più perverso del fascismo storico: il vecchio fascismo era stato in grado di fascistizzare i comportamenti, senza intaccare però i valori di base, quelli che definivano le appartenenze sociali e civili. Il nuovo fascismo, invece, è sleale e ingannatore e rappresentato da un potere che manipola i corpi e che non lascia spazio ai pensieri, capace di fascistizzare le coscienze e, perciò stesso, di distruggere le particolarità e buttare ogni cosa in un unico mucchio, più facilmente omologabile e, di conseguenza, controllabile e manipolabile.
Per lui, continuare ad opporsi solo alle manifestazioni di un fascismo storico svia l’attenzione da un neofascismo molto più pericoloso, che sta fascistizzando le coscienze e contro il quale di fatto non si attua nulla per poterlo sconfiggere.
In un articolo del 10 giugno 1973 apparso sulla rivista «Tempo», prendendo spunto da una riflessione fatta sul libro “Un po’ di febbre” di Sandro Penna, scrive:
“Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trentanni non è più cambiata: non dico i suoi valori – che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire – ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.”
Il senso ultimo di ciò che dice non ha, naturalmente, nulla a che vedere con il rimpianto del fascismo, per il quale prova orrore e disprezzo – qualunque sia la sua forma -, quanto per il tempo e le condizioni in cui quel fascismo, quello storico del ventennio, aveva operato: condizioni che, nonostante tutto, non avevano permesso al potere di intaccare certi valori che erano ancora ben radicati nelle coscienze sociali, politiche, civili, e avevano avuto la forza di rimanere ancora immutati e integri.
A febbraio del 1975, in un articolo scritto per il «Corriere della Sera», il famoso “Articolo delle lucciole” contenuto negli Scritti Corsari, scriverà:
“Dopo la scomparsa delle lucciole.
I «valori», nazionalizzati e quindi falsificati, del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. […]A sostituirli sono i «valori» di un nuovo tipo di civiltà, totalmente «altra» rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. […]Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a «tempi nuovi», ma a una nuova epoca della storia umana: di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. […] per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata ad essi), sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque «coi miei sensi» il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere «totalitario» iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I «modelli» fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima”
Il fascismo storico aveva, di fatto, scalfito solo i comportamenti, ma le culture particolari – quella contadina, quella operaia, quella proletaria – rimanevano, nel profondo delle coscienze, aggrappate ai loro modelli di sempre.
Molto più pericoloso, invece, è a suo avviso il nuovo Potere che si stava insinuando in maniera sleale nella nuova società dei consumi, per arrivare, attraverso lo strumento manipolativo della persuasione, al suo fine ultimo: ridurre gli italiani ad un unico e solo modello di comportamento, un nuovo modello di suddito che semplificasse di molto la realizzazione del proprio desiderio di potere.
Un potere che svilisce le persone e le trasforma in corpi da mercificare e manipolare, attraverso il controllo totale delle coscienze, che riesce a scavare nell’animo e nei pensieri e ad indirizzarne le scelte e persino i bisogni e le necessità.
Un potere che, in maniera ambigua, diventa un modello culturale senza doversi imporre, come invece era stato per il fascismo storico, ma operando direttamente nel profondo delle coscienze, ingannandole per ottenere i risultati sperati, facendosi accettare passivamente.
“[…] non è un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma una tragedia”
E in effetti la tragedia che lui vede sta in un cambiamento repentino della società, dove tutti si sono fatti abbindolare dai cambiamenti progressisti senza accorgersi che tutto erano fuorché dei cambiamenti, almeno in termini di libertà acquisite.
Vedere lungo, vedere oltre.
La capacità di Pasolini di vedere lungo rende le sue denunce molto attuali e usufruibili come monito per provare ad interpretare la società attuale e a smuoverla, per farla uscire dal sonno profondo nel quale sembra essersi catapultata.
Il suo battersi per una società che rimanesse vigile, attenta, senza sottomettersi al nuovo potere del conformismo omologante, dovrebbe essere riguardato e approfondito oggi per far ritrovare la strada a quel pensiero critico ormai completamente annientato dal mainstream che sembra aver contaminato ogni singolo pensiero.
A pensarci bene, Pasolini oggi sarebbe stato l’emblema del complottismo: lui che ha sempre odiato le etichette, ancor più se false e inutili, e che ha pagato la sua onestà intellettuale con la vita, mettendo in campo senza remore e senza paura le sue idee, indegne e inopportune agli occhi dei più. Deriso, anche lui, come succede oggi, querelato più volte e messo alla gogna anche grazie all’appiglio della sua omosessualità e del suo vivere in maniera indecorosa.
Negli anni settanta, però, nonostante il suo sguardo apocalittico e completamente distante dalla tendenza che si faceva spazio tra gli intellettuali, il suo pensiero aveva trovato il modo e lo spazio per manifestare il dissenso e la messa in guardia verso quel cambiamento che aveva qualcosa di tragico. Una tragedia che aveva saputo cogliere pur senza prove concrete, ma solo grazie al suo saper spingere lo sguardo verso il futuro e alla capacità di decifrarne i confini grazie ad una resistenza vera, concreta, che non si piega al piacere momentaneo, ma sa interpretare ogni singola mossa, passo dopo passo.
Una resistenza che gli ha permesso di capire fin da subito ciò che sarebbe diventata la società attuale: quella del pensiero unico, uniformato, standardizzato, massificato, appiattito al punto da aver persino paura o vergogna di distaccarsi dal pensiero che appartiene alle masse e che subisce la strumentalizzazione del potere.
Una strumentalizzazione che stabilisce a priori quale sia la parte giusta dalla quale stare per essere – e per sentirsi – buoni cittadini; che non lascia spazio alla possibilità di riflessioni o dubbi che siano supporto nel perimetrare correttamente, e senza condizionamenti, la parte giusta; che porta a difendere a spada tratta certe posizioni che vanno per la maggiore per paura di essere etichettati con i titoli discriminati e discriminanti.
Una strumentalizzazione che genera una società inevitabilmente uniformata: talmente uniformata da non avere più riferimenti per orientarsi in un marasma che procede troppo velocemente e senza possibilità di capire davvero dove si vuole andare. Si procede trasportati dalla massa, confusi dai tormentoni propinati dai nuovi “commessi del potere” (giornalisti, intellettuali, opinionisti in virtù del loro essere famosi) che si muovono come burattini senza sapere chi ne muove i fili, perché gli basta sapere esclusivamente il perché. E il perché si riduce banalmente alla possibilità di rimanere fedeli a quel patto, a quel compromesso a cui si sono assoggettati per arrivare sulle loro poltrone.
Eppure, nonostante le sue critiche dure, il suo essere sempre controcorrente, Pasolini continuava a trovare spazio per esprimere i suoi dubbi, le sue incertezze, le sue perplessità, le sue paure, persino sulle testate giornalistiche principali.
Poi il potere ha affinato sempre di più le modalità manipolative, attuando una sorta di auto selezione guidata, tessendo le fila di due fazioni contrapposte senza possibilità di redenzione: o stai da una parte o stai dall’altra e se scegli quella sbagliata è finita. E oggi non c’è più diritto di replica o possibilità alcuna di sfumature che possano mettere in evidenza dubbi o perplessità. C’è una sola verità ed è quella decisa dalla nuova dittatura.
Il senso di giustizia che muove la resistenza pasoliniana non esiste più: ha lasciato spazio all’autoesaltazione, all’autoproclamazione, al bene proprio che si muove sul filo dell’individualismo più spietato.
Leggere Pasolini oggi è illuminante. Rimane forse l’unica voce lucida che in virtù del suo catapultarci indietro nel tempo, a quando tutto ha avuto inizio, ha la capacità di farci vedere bene ogni passaggio di una mutazione voluta, decisa e manipolata da un potere malvagio, violento, spietato, che a piccoli passi ha portato la società ad avere un ruolo completamente passivo, mortificandone la parte più vera e autentica e lasciando sempre più spazio alla parte dura, dispotica, prepotente, che si palesa attraverso comportamenti nevrotici e fortemente arroganti. Una mutazione che non ha più scampo se non si attua un percorso a ritroso sulla strada dei valori e di un risveglio dal torpore inculcato da uno schermo capace di contenere e trattenere e indirizzare tutta la nostra vita.
Emanuela Gioia