
Oggi Fabrizio De André avrebbe compiuto 85 anni.
La curiosità di sapere come sarebbe andata se la sua vita fosse continuata su questa terra è sempre molto forte, come forte e potente rimane quel bisogno disatteso di poter ancora usufruire della sua voce dal vivo e di tutti quei nuovi testi – di quelle poesie – che avrebbe potuto scrivere ancora in questi 26 anni.
Manca molto la sua presenza, anche a distanza di anni, e per chi come me non ha avuto la fortuna di assistere nemmeno ad uno dei suoi concerti, il rammarico diventa ancora più grande.
Per fortuna, nonostante il tempo, la sua voce resta. Resta nelle parole che si fanno melodia, nei versi capaci ancora di toccare corde profonde, nelle emozioni che ogni sua canzone riesce a far trasudare anche dopo averla ascoltata milioni di volte.
Non avevo mai scritto nulla su De André, fino ad oggi.
Ho sempre temuto non solo l’impreparazione per poter dire qualcosa di diverso, ma soprattutto perché, specie da qualche tempo a questa parte, c’è una sorta di rincorsa a chi meglio di altri riesce a dirne cose, persino a svelarne di improbabili, pur di annoverarsi tra chi lo rievoca o lo cita o lo rilegge a modo proprio.
Ma questo è un po’ il destino dei grandi e, a dirla tutta, forse è giusto che sia così. Perché ognuno ha il suo De André e ciascuno merita di goderselo quanto e come preferisce. Goderselo, sì. Magari, però, senza farne un’icona di devozione sterile e senza ridurlo a una figura mitizzata e intoccabile: De André non era un santo né un profeta, e nemmeno avrebbe voluto esserlo.
Cantautore e poeta, tra inquietudini e bellezza
Fabrizio De André non è stato solo un cantautore.
La sua presenza sulla scena musicale si è tradotta in maniera multiforme, attraverso una personalità che si è saputa distinguere grazie alla sua capacità di raccontare l’umanità in tutte le sue sfumature, senza mai cadere nella trappola di facili cliché.
Era un sognatore, un cantore dell’anima, un idealista capace, con la sua voce dolce e tagliente al contempo, di restituire dignità agli ultimi, ai dimenticati, a chi non aveva spazio per raccontarsi, ma senza mai ridurli a simboli, senza farne archetipi vuoti o immagini stereotipate. Al contrario, sapeva cogliere dalle loro storie la verità più cruda per trasformarla, poi, in denuncia, ma anche in emozioni autentiche, in passione, in poesia.
Sono molti quelli che lo hanno definito – e lo definiscono – un poeta, nonostante la sua mai nascosta repulsione verso certe etichette.
E lui, che non amava i titoli, né le definizioni che ingabbiano o le classificazioni che schiacciano la libertà e la vocazione, si è sempre fatto scudo, concretamente, con le sue idee e con le sue canzoni che, al pari della poesia, hanno saputo ricercare la verità nelle pieghe dell’animo umano.
Era un poeta, sì, ma un poeta terreno, concreto, vicino alla realtà, capace di scovare la bellezza nella fragilità umana, di dar voce agli ultimi senza retorica, di raccontare il dolore e la speranza senza moralismi.
E come molti poeti era un uomo dall’animo inquieto, smanioso, insofferente. Nelle sue canzoni è questo suo animo che viene fuori, con una intensità tale da renderne l’ascolto una sorta di catarsi, un’ anabasi dell’anima: un viaggio attraverso il dolore, la disillusione, la bellezza, la speranza; un cammino capace di condurci – a noi che le ascoltiamo – nelle profondità delle emozioni umane per poi farci risalire più consapevoli, più empatici. Sicuramente più liberi.
L’anarchia di De André: un viaggio nell’anima
Se c’è un filo conduttore che ha sempre tenuto insieme la sua opera e la sua esistenza, quello è, senza dubbio, il suo essere anarchico.
Un’anarchia, la sua, che non è mai stata una posa, ma un’esigenza interiore, un bisogno viscerale di libertà e di rifiuto di qualunque autorità o imposizione, capace di dare senso alla sua inquietudine e soprattutto di dargli un rifugio dalle convenzioni sociali. Un’anarchia esistenziale prima ancora che politica, scaturita dalla sua insofferenza adolescenziale e maturata nel tempo come rifiuto consapevole di ogni falsità e ipocrisia.
Un’ anarchia tuttavia non priva di contraddizioni. Perché Fabrizio De André era un borghese, figlio di una famiglia agiata, con un’educazione solida e un futuro che, in teoria, avrebbe potuto seguire strade più convenzionali. Ma lui, nonostante il suo spirito ribelle e anticonformista e la sua sincera vicinanza agli ultimi, non ha mai nascosto di appartenere a quel mondo, né, soprattutto, di aver vissuto tutte le contraddizioni di chi osserva e indaga la realtà da una posizione privilegiata.
Ed è proprio in questo apparente paradosso che si svela la sua verità: la sua evoluzione antiborghese ha seguito un percorso che è stato faticoso, tormentato, sofferto, e segnato dalla necessità di affrancarsi da un mondo che sentiva estraneo, pur essendone parte. Un mondo perfettamente incarnato dalla figura di suo padre – figura centrale nella sua formazione – che per lui ha rappresentato un riferimento e un punto di attrito insieme, ma soprattutto l’emblema di quella rispettabilità che non ha mai voluto fare propria.
Per molto tempo, la sua unica idea è stata quella di fare canzoni per guadagnare, per vivere senza dover sottostare a orari imposti o a disposizioni per lui assurde e difficili da rispettare. Non si considerava un eroe o un rivoluzionario, e nemmeno aveva l’ambizione di diventarlo. La musica, all’inizio, era solo un mestiere, un modo per mantenere il distacco dalle convenzioni senza però rinunciare alla sicurezza.
Poi, però, canzone dopo canzone, il suo sguardo si è fatto sempre più profondo, il suo impegno più viscerale, la sua voce sempre più intima, necessaria, viva.
Per quasi trent’anni ha parlato del potere senza mai fare politica, ma lanciando messaggi attraverso le sue composizioni poetiche e musicali. La sua era un‘anarchia dell’anima che rifuggiva ogni dogmatismo e si esprimeva nel dubbio, nella ricerca continua, nell’arte come strumento di liberazione.
Come diceva Brassens – che De André ammirava profondamente – “una persona eccezionale è quella che si interroga di continuo laddove altri vanno avanti come pecore.”
E lui si è interrogato sempre. Su tutto.
Non si è mai posto come portatore di verità assolute o soluzioni preconfezionate, ma ha sempre suggerito, accennato, lasciando spazio al dubbio, alla riflessione, all’interpretazione personale, mettendo chi lo ascoltava nella posizione di trarre le proprie conclusioni. Perché, alla fine, l’unico vero dogma che ha sempre combattuto è stato quello della falsa semplicità, quella illusoria, quella che nasconde la complessità della realtà, quella che appartiene a chi non si pone domande, a chi accetta tutto in maniera passiva e senza spirito critico.
Una evoluzione che ha reso grande la sua figura: un uomo – persona e mai personaggio – dall’interiorità tormentata, screziata di mille sfumature che rappresentano le miriadi di sfaccettature, di emozioni diverse e contrastanti, che hanno scavato nella sua anima vincendolo, alla fine, ma non fino in fondo.
Perché Faber esiste ancora, non è mai morto. La sua anima rimane legata a una presenza che è piena, imponente, sicura. E proprio per questo, ancora oggi, la sua voce continua a scuoterci, a metterci in crisi e a farci sentire – almeno un po’ – più liberi.
Emanuela Gioia