Credo di averlo detto fino alla noia che i libri sono consolazione e se non mi stanco, e non mi stancherò mai, di dirlo, è perché ogni volta ne ho conferma. Ogni volta i libri mi capitano in mano al momento giusto; ogni volta sanno quando è il loro momento perché diventino consolazione con quello che hanno da dirmi.
Mi capita spesso di acquistare dei libri e riporli in libreria e dimenticarmene. Che poi non è un vero e proprio dimenticarsi, quanto un’attesa programmata, tant’è che nella mia libreria esiste “lo spazio dell’attesa” dove ripongo tutti i libri che non leggo immediatamente appena li compro. Loro stanno lì, io ogni tanto li guardo, li ripasso, li sfoglio in attesa che mi chiamino.
“Restiamo così quando ve ne andate” di Cristó, edito da Terra Rossa Edizioni, era fermo nella mia libreria da quasi tre anni. È il primo libro che ho comprato da Giovanni, il direttore editoriale di Terra Rossa, la prima volta che l’ho incontrato al Salone del Libro di Torino, nel 2018. E non è affatto un caso se dopo tre anni proprio adesso mi sia capitato tra le mani: un momento cruciale per me, che mi vede appesa ad una sorta di indecisione che mi immobilizza, ma che va a braccetto con il periodo difficile che stiamo vivendo e che, in qualche modo, contribuisce a distorcere le prospettive e i sogni, mettendo in scena atti infiniti di una vita appesa ad un’incognita enorme che toglie il respiro.
Guardarsi dal di fuori
Specchiarsi in un libro che ti sbatte in faccia una realtà che scacci dalla tua testa, e la ignori con tutte le forze anche se ne hai una consapevolezza inconscia, è un’esperienza quasi mistica: una sorta di psicanalisi inconsapevole che dalle parole lette una dietro l’altra ti scaraventa in una dimensione che assomiglia sempre di più a quella che ogni giorno vivi, subisci, detesti, ma non sai cosa fare per liberartene. È un po’ come sentir raccontare la tua vita da qualcun altro: la vedi chiara e limpida e ti ci scontri subito e cerchi soluzioni da mettere in pratica, come quando lo fai per un amico che ti chiede aiuto, ché, si sa, la ricerca di soluzioni per i problemi degli altri ha sempre un passo più semplice e lineare.
La crisi d’identità di Francesco, che ha 40 anni, sembra essere scritta nel suo DNA. Suo padre lavora da sempre in un ipermercato e quando va in pensione fa di tutto perché il figlio possa prendere il suo posto. Il direttore è suo amico da sempre e l’operazione non gli risulta difficile da concretizzare. Ma Francesco subisce le scelte di suo padre, che lo vuole accomodato in quel posto sicuro, che è stato anche il suo per una vita, e di sua madre che gli ricorda ogni giorno che perdere quel lavoro gli farebbe perdere la tranquillità di uno stipendio.
Ma quale tranquillità? Francesco passa i suoi giorni fumando hashish, e inveendo contro tutto ciò che gli risulta impossibile concretizzare durante la giornata , quando è a casa, e contando monetine, come fosse una forma di catalessi forzata, quando è al lavoro.
Mentre lui ricerca l’ordine, l’autodisciplina, la scintilla che gli faccia rompere gli schemi e lo metta sulla strada giusta per portare avanti il suo sogno di sempre di comporre musica, nella sua vita regna sovrano il disordine, fedele compagno dell’inerzia che lo attanaglia nei pensieri e nelle azioni.
Una vita pressoché inutile, fatta di giornate vane che procedono nello scorrere delle ore svuotate di vita, riempite solo dal rumore di monetine da contare e da qualche parvenza di emozione che lo scuote, ma non abbastanza da convincerlo che “la vita è sacra”. Finché un giorno non arriva lo scossone vero, quello che ti catapulta nella realtà dello scorrere del tempo che si fa vuoto, inutile, della vita che passa senza averne goduto ogni singolo istante e della consapevolezza che esiste anche la possibilità che la vita può fermarsi, da un momento all’altro, senza averne preavviso, senza averla abbracciata abbastanza.
La vita è sacra.
«La vita è sacra, non la morte». È questo che gli suggerisce il pensiero pomeridiano: il suo alter ego scomodo che lo spinge a reagire, ad alzarsi dal divano e spegnere l’interruttore dell’inerzia per provare a partorire la sua Creatura: quella che lo chiama, lo ossessiona, lo rimprovera, lo accoglie, ma lui scaccia senza intenzione e ne diventa vittima per paura, per pigrizia, per colpa di quella stessa indolenza che lo costringe a rimanere ancorato a quel lavoro che odia e che lo annienta, che apparentemente gli permette di sopravvivere, ma lo uccide lentamente ogni giorno.
Francesco ha tutte le carte in regola per essere un inetto: afflitto dall’impossibilità di essere, ci si adagia dentro facendosi vittima dei colleghi, del suo capo, del lavoro e persino di sé stesso. Il rapporto con il padre lo schiaccia e lo fa sentire invisibile e nonostante il bisogno di ricucirne gli strappi, non è capace di assecondarne i passi. Fuma hashish appena gli è possibile per deviare i pensieri scomodi, incontra Monica occasionalmente per assecondare i suoi impulsi, approfittando a suo piacimento della sua disponibilità e premura e, allo stesso tempo, brama l’impossibilità di avere una relazione con Fatima, la ragazzina della porta accanto che lo osserva ammiccando e stuzzicandogli la fantasia.
Il pensiero pomeridiano arriva camminando, passo passo. Parte la mattina presto per arrivare il pomeriggio. Mette il primo piede sul terreno e mi sveglia alle otto. Il secondo passo mi fa girare su un fianco e mi spalanca gli occhi perché fa caldo e perché fa male. Il pensiero pomeridiano all’inizio è una sensazione di fastidio: una specie di consapevolezza minore, quella leggera vertigine di essersi appena svegliati; il passaggio immediato dall’ottimismo istintivo del cervello per la resurrezione quotidiana, per non essersi spento per sempre neanche stanotte, al ritorno nella vita in cui non esistono soluzioni semplici (…)
Eppure Francesco non è un inetto: è un ragazzo curioso che sogna, che ama la musica e, soprattutto, che ha una Creatura potente dentro di sé che fatica a tirar fuori, a partorire, a concretizzare. Come se ne avesse paura, la cerca e la rimanda nello stesso identico istante: è la sua spinta e il suo freno, la porta per il cambiamento, ma anche il perno della sua inerzia.
I muri che diventano culla e ossessione
L’ordito narrativo della vita di Francesco si consuma tra i muri di casa: muri per niente banali che sanno farsi culla e ossessione, tra stanze che cambiano nome, a seconda del momento, e occhi che osservano le vite di dentro come fossero oggetti: da preservare e curare per averne conforto e per farsi esse stesse conforto.
Restiamo così, quando ve ne andate. Rimaniamo in questo vuoto di formiche, in questo silenzio senza sonno, senza occhi da chiudere o da tenere aperti. Le stanze dimenticano i loro nomi e non hanno più una propria voce; tratteniamo a fatica la nostra identità di case perché certi nostri muri sono gli stessi di altre case, dall’altro lato. Rimaniamo con i buchi senza quadri; i tasselli senza più viti non hanno più mensole da reggere. Il pavimento diventa leggero senza il peso dell’armadio, delle librerie, dei tavoli, degli elettrodomestici, delle persone. Non siamo più case, ridiventiamo parte del palazzo, muri dei muri; partecipiamo da lontano alla vita nelle altre case quelle che qualcuno abita ancora, ci nutriamo di echi lontani, lievi vibrazioni, (…) Ci dimentichiamo di essere una casa e diventiamo palazzo.
È una narrazione apparentemente statica, che si trascina lentamente in uno spazio che si alterna e si dilata grazie al tempo che lo accoglie e ne segna il passo: un tempo che appare ripetitivo, ma che, man mano che la narrazione scorre, proietta dimensioni e punti di vista diversi che danno il ritmo alla vita di Francesco, alla sua indolenza, agli scossoni che riceve dalle vicende che gli accadono intorno, alle paranoie. Paranoie che si materializzano con l’hashish, ma che, di fatto, rimangono latenti sempre, giorno e notte, aspettando il coraggio di uscire dai pensieri e farsi materia viva.
Scorrono i giorni, i mesi, gli anni e i sogni si crepano insieme ai muri e si fanno paura e vuoto. I giorni si riempiono, come le stanze, di oggetti, di silenzio, di musica, di odori, ma nulla che diventi concretamente qualcosa: nulla che si sostituisca al palcoscenico isolato dei social, su cui scrivere per avere dei like e provare la sensazione di essere vivi, o di google, su cui fare ricerche stravaganti nelle quali rintracciare soluzioni per sogni impossibili.
E nel frattempo il pensiero pomeridiano continua a suggerire quella frase: «La vita è sacra, non la morte».
La vita è sacra, ed è sacro il dovere che abbiamo di renderla speciale, di non sprecarla, di osare quanto più possibile affinché ciò che ci è stato donato non vada perduto, non si perda nei meandri dell’universo senza lasciarne traccia, senza averne contezza, senza che ci tiri fuori la Creatura che sta dentro di noi e che aspetta solo di essere partorita, accompagnata, guidata.
La vita è sacra e vale la pena sempre rischiare per trovare la strada giusta e percorrerla: nonostante la certezza di trovare ostacoli, che siano grandi o piccoli, di trovare grosse buche o voragini sul nostro percorso che ci fanno credere che sia giusto tornare indietro, ritornare sui nostri passi, rinunciare perché tentare sarebbe troppo.
La scrittura come consolazione
Succede così che la scrittura si fa consolazione accompagnando una narrazione che si fa lotta, contro il silenzio, che tormenta e lacera, e contro il rischio che il senso stesso delle parole possa diventare nulla. Scrivere diventa necessità per sciogliere quel grumo di dolore che paralizza e, come la musica che sostiene chi ascolta, incoraggia chi legge a farsi carico di sé stessi e a tramutare la solitudine in pienezza e il dolore in risorsa.
Emanuela Gioia
TITOLO Restiamo così quando ve ne andate
AUTORE Cristó
EDITORE Terrarossa Edizioni
ANNO DI USCITA 2017